Lo scrittore del Samoa Albert Hanover, racconta, nel suo particolare romanzo, La figlia della luce, come prima di “sentire la storia, fumava solo Lucky Strikes perchè il pacchetto gli faceva pensare all’artista statunitense Jasper Johns. Precedentemente si era divertito con il gioco di parole della marca americana di sigarette, che permetteva identificare in inglese il colpo di fortuna che annunciava l’accensione del fiammifero (to strike a match) che accendeva la sigaretta e questo in qualche modo, evocava anche Johns e la sua elegante ed incisiva ironia duchampiana che illustrano in modo così ammirevole opere come Il critico sorride e che consisteva in uno stampo metallico di spazzolino da denti collocato su uno zoccolo dello stesso materiale. Tutto in Johns, nonostante l’intenzionale banalità dei suoi temi e delle sue forme o proprio grazie a questa, dato che i disegni banali non provocano nessun’energia, è sempre elegante, iniziando per il suo squisito e magistrale trattamento pittorico della tela che riporta al concetto di inerzia pittorica dei Kenneth Noland e terminando il suo interesse nell’idea di pittura come oggetto e non come rappresentazione.. Fu a Lisbona tuttavia, dove Hannover lavorava come professore di spagnolo in una scuola di lingue, che il direttore generale di Lucky Strike per l’Europa, all’epoca alunno suo, gli assicurò che sul disegno del pacchetto, opera di Raymond Loewy, creatore, tra gli altri, del logotipo della Shell e uno dei grandi nomi del disegno industriale, Johns, non vi aveva mai partecipato. Sul pacchetto originale una sfera dipinta di rosso su uno sfondo verde rappresentava una palla di biliardo, aggiungendo così un nuovo gioco di parole al nome delle sigarette....
A tutti noi che tendiamo a pensare a strane cospirazioni orchestrate da potenti sconosciuti per ogni fenomeno osservato nella nostra società, succeede spesso di soffrire il patologico affanno cospiratorio. È vero che quando i fatti non presentano una chiara ed evidente origine razionale, la cosa più facile è andare in cerca di argomenti rocamboleschi che, molte volte, sono clamorosamente erronei. Evidentemente tale tendenza non è la più razionale se ciò che si pretende è avvicinarsi alla veridicità, ma attenzione, accettare la spiegazione ufficiale, giustificarla ciecamente perché appoggiata da gruppi officiosi di potere, o pensare sistematicamente che la realtà sia quella pubblicata nei mezzi informativi sempre sospetti, significherebbe restare volontariamente all’ombra dell’avvenimento. Per ogni evento con una ripercussione sociale esiste sempre una solida spiegazione accettata e divulgata in tali termini da varie fonti. Contemporaneamente, mille ipotesi minoritarie nascoste cercano di darle una spiegazione alternativa. L’idea con cui rimaniamo sempre non sempre è la più logicamente argomentata, ma è quella che fa più parlare di sé. Quella che ci arriva da infinite fonti come missile dis-informativo, e le cui onde si riverberano fino a renderci incapaci di ascoltare alter possibili ipotesi. Quelle altre ipotesi che, per quanto vicine al senso comune e alla logica schiacciante del fatto stesso, non vengono valorizzate o sono addirittura dimenticate nel rumore di fondo. Se ciò che si vuole è la verità, l’obiettività –qualcosa d’inarrivabile nonostante le pretese- dovrà voltare le spalle al pensiero unico in modo sistematico. Non in quanto improbabilmente sbagliato, ma in quanto scandaloso. Tale verbosità arriva molto presto alle nostre orecchie e il fatto più triste è che arriva al nostro incosciente...
Di recente il Museo de Arte Contemporáneo de Barcelona (MACBA) ha acquistato un’opera datata al 2004 e consistente nella ricerca documentata attraverso fotografie e testi vari di un’azione consistente nella chiusura, facendo uso di una struttura metallica, dell’accesso a una grotta situata in un luogo determinato situato sulle montagne dei Paesi Baschi, la cui particolarità è quella di presentare un piccolo passaggio per il transito delle tartarughe. Impossibile tuttavia il passaggio per le persone. Si tratta di un’opera che aspira a significare e ricodificare il paesaggio attraverso un intervento sullo stesso incentrato sulle nozioni filosofiche dei simboli e dell’identità. Nelle succinte parole dell’autore di quest’opera “la chiusura della mia grotta non riguarda la natura, bensì la coscienza umana e questa è una differenza fondamentale… Anche se potrebbe sembrare violento non lo è. Riguarda solo la nostra immagine della sacralità. Ha una funzione simbolica”. Il nome dell’intervento è Ir. T. Nº513 zuloa. Extended Repertory e quello del suo creatore Ibon Aranberri (Itziar-Deba, 1969), un enigmatico artista che, conosciuto solo in parte, negli ultimi anni ha conquistato un sempre maggiore prestigio internazionale grazie a lavori simili a questo, opere concepite in forma di progetti situati tra la narrativa documentaristica e il formalismo astratta, dove il materiale artistico essenziale è rappresentato dalla natura e dalla storia. Finalmente, dopo diversi spostamenti (la mostra cominciò a essere preparata nel 2004), presso la Fundació Antoni Tàpies de Barcelona (calle Aragó 255, http://www.fundaciotapies.org/site/) ), è ora possibile visitare fino al prossimo 15 maggio una retrospettiva supervisionata da Nuria Enguita Mayo, incentrata sugli ultimi dieci anni della sua attività artistica, compresa Ir. T. Nº513 zuloa. Extended Repertory,...
La Storia, si sa, è sempre la storia del presente. Obbligatoriamente ogni società si pone solo le questioni pertinenti alle circostanze e agli intressi che caratterizzano e muovono il proprio momento storico determinato, e in modo subordinato a tali circostanze ed interessi si dà priorità, si sottovalutano o si scartano fonti e dati –d’altra parte in molti casi frammentari-, per creare un determinato racconto del passato. Tenendo in conto queste considerazioni, non sottovalutiamo a priori la curiosa ricerca che, a partire da diversi elementi in contrasto, ha portato Ruggero Marino (Cristoforo Colombo, l’ultimo dei templari) e Javier Serra (Il cammino pribito e altri enigma della Storia) a suggerire l’impressionante possibilità che Cristoforo Colombo fosse un cavaliere templario –da ciò derivano forse le croci gigantesche cucite sulle vele delle tre caravelle che si crede partirono il 3 agosto del 1492 dal Porto de Palos – e magari addirittura che si fosse arrivati in America per la prima volta non ufficialmente anni prima di quella data con l’aiuto delle conoscenze dell’Ordine. Secondo l’economista Jacques de Mathieu (Colombo é arrivato dopo) alcuni dei cavalieri templari, come sembra testimoniare, tra l’altro, la figurina precolombiana di un uomo barbuto nella cui tunica talare é impressa una croce greca trovata nella regione boloviana di Carabuco, avrebbero sfruttato le miniere d’argento sudamericante durante i secoli XII e XIII (si spiegherebbe così la misteriosa proliferazione della moneta d’argento templaria in Europa a quel tempo, ed il fatto che i templari avessero potuto stabilire il porto principale della propria flotta non guardando al Mediterraneo, come sarebbe stato auspicabile e naturale nel contesto dell’epoca, bensì all’Atlantico, nella località normanna...
Senza la necessità di ridurre i tedeschi alla condizione di bestie bionde che tracannano birra, un giorno dovremmo fare caso a Nietzsche anche in questo e studiare la storia della società senza dissociarla dal cibo e dalle diverse droghe che consumano, così come anche l’ambiente nel quale sono consumate. Dato che non necessariamente si dovrebbe seguire alcun tipo d’ordine cronologico, potremmo iniziare per esempio per Vienna intorno alla transizione tra il secolo XIX e XX dell’era cristiana e calibrare la straordinaria importanza che aveva la vita nei caffé e della quale, da Stefan Zweig a Joseph Roth passando per Hermann Broch e Robert Musil, ci è rimasta una testimonianza letteraria di valore inestimabile, nel crepuscolare impero Austro-Ungarico, durante quei brillanti ed ambivalenti anni della Belle Epoque. I caffé dell’epoca a Vienna si trasformarono in un’istituzione particolare. Non solo costituivano l’asse più decisiva della vita sociale, ma il centro indiscutibile dell’attività culturale. L’associazione di artisti d’avanguardia artistica a Vienna dopo la Grande Guerra, prese il suo nome da Herr Hagen, il proprietario del caffé ristorante Zum blauen Freihaus, dove si riunivano. Un altro gruppo di artisti, il Club Siebener, ebbe la sua origine nel caffé Sperl ed il combattivo gruppo Associazione Austriaca di Artisti, più noto come secessione viennese, si formò il 3 aprile 1897 nel caffé Griensteidl. I tavoli di un altro caffé furono testimoni, sei anni più tardi dalla nascita di un gruppo attratto da un’estetica più razionale e pratica sorta all’interno della stessa secessione, la Wiener Werkstätte La secessione viennese originaria contava con 50 membri presieduti da Gustav Klimt. Un anno dopo la sua fondazione fu inaugurata...
L’artista italiano Nico Vascellari è un mastro di eccentricità. Le sue incredibili installazioni sono un complesso ibrido tra disegno, collage, video, performance e scultura con sfumature sonore. I suoi principali referenti sono il folclore, la natura, la scena underground alternativa. Vascellari è un creativo poliedrico, artista contemporaneo e cantante della band punk “With love”, la sua forza sono le forme di espressione arcaiche e ribelli. Nel 2007 partecipò a una delle biennali d’arte contemporanea più importanti e radicali del mondo, la Manifesta. Il suo apporto fu una videoinstallazione di grandi dimensioni, che richiamò l’attenzione di curatori e critici internazionali. Nello stesso anno fu insignito del premio “Giovane Arte Italiana” e il suo lavoro fu inserito in una delle collezioni corporative più importanti del mondo, la Sammlung Deutsche Bank. “Cuckoo”, una delle sue mostre più coraggiose, allestita nel 2007, presentava un’installazione che aveva l’intenzione di fondere in sé i concetti di rituale, iconografia, ritmo, tempio e sacrificio, per poi concludersi con una sorprendente performance in collaborazione con i membri del suo gruppo punk. Ora il MACRO, museo di arte contemporanea di Roma, ospita questo artista, uno dei più interessanti del panorama contemporaneo italiano. Il 29 ottobre 2010 è stata inaugurata la mostra intitolata “Blonde”, un progetto pensato appositamente per le pareti curve del museo con l’intenzione di conferire una nuova vita a quest’area di transito. Per ulteriori informazioni su “Blonde”: http://en.macro.roma.museum/mostre_ed_eventi/mostre/nico_vascellari_blonde ? Heloise Battista Se ti interessa il lavoro poliedrico e innovatore di uno dei più promettenti artisti italiani emergenti non perderti la sua prima mostra al MACRO di Roma. Prendi in affitto appartamenti a Roma alla scoperta del...
All’inizio del 1988, come se presentisse la morte, che sarebbe sopraggiunta solo alcuni mesi più tardi, il poeta inglese Ted Hughes, diede a stampare una collezione di poemi. Lettere scritte in prima persona nel corso di un periodo di più di 25 anni ed indirizzate quasi nella loro totalità alla sua prima sposa, la poeta statunitense Sylvia Plath che si era suicidata 35 anni prima. Si tratta di Birthday Letters (Letter di compleanno), un libro di incredibile bellezza nel quale per la prima volta Hughes affrontava, dalla prima volta che la vide nel Strand di Londra, in una foto di gruppo di borsisti Fullbright, la questione della morte, dell’assenza di Plath e la tesa, bella e drammatica vita che avevano condiviso. Attraverso questi poemi scopriamo che dopo le loro modeste nozze il joyceano giorno di Bloomsday (16 giugno, giorno nel quale si svolge l’Ulisse) nella parrocchia di St. George of the Chimney Sweeps del quartiere londinese di Holborn, sul cui altare Plath vide “i cieli aprirsi e mostrare ricchezze mature che cadevano su di noi”, “Hughes, standole accanto si vide sottomesso ad un tempo strano: il futuro stregato”, andarono in viaggio di nozze a Parigi. Lì, mentre Plath riviveva con entusiasmo il mito della città che creato da Stein, Hemingway, Fitzerald, Miller ed il resto degli americani della generazione persa, per Hughes, segretamente esisteva solo “la capitale dell’occupazione e del vecchio incubo” Leggeva ogni cicatrice di pallottola nelle sedie del Quai/ Con una sinistra sensazione familiare/ e guardava fissamente il modo afflitto nel quale il sole…. Non è difficile condividere le sensazioni del poeta inglese, quando si visita la...
Il circo come fenomeno culturale è stato rivalutato a poco a poco grazie al riconoscimento delle complesse arti circensi. Sebbene in molte occasioni il circo sia stato visto come luogo di sfruttamento sia degli uomini sia degli animali in nome dello spettacolo, la valorizzazione della sua estetica e il suo apporto alle Belle Arti ci invitano a studiarlo più a fondo. Spingendosi al di là dello spettacolo tacciato di crudeltà, ci appare il magnifico lavoro dei componenti del circo, le cui doti artistiche si uniscono a uno stile di vita che necessita una grande capacità di adattamento e molti sacrifici. Itinerante, effimero e diverso, il circo attraversa grandi città e piccoli paesi presentando per una o più notti un mondo allegro e abile. La realizzazione del tendone e di tutto ciò che avviene al suo interno comporta enorme impegno. I circensi sono contemporaneamente figli e creatori del circo stesso: funamboli, trapezisti, giocolieri, maghi e pagliacci, ogni persona ricopre un ruolo all’interno della micro comunità circense. Spesso sono famiglie intere quelle che lavorano al suo interno, a testimonianza che il circo è un vero e proprio stile di vita che si tramanda di generazione in generazione. Raccontare queste storie, o almeno una di queste, è l’obiettivo della mostra “Un secolo di circo”, nella quale è possibile ricostruire la carriera di Paulina Andreu Rivel, figlia del famoso pagliaccio dai capelli rossi, nato a Barcellona: Charlie Rivel*. Anche se non famosa come il padre, Paulina Andreu Rivel vanta un’intensa carriera nel mondo del circo. Tra poco compirà novanta anni, festeggiando quasi un secolo di esperienza artistica circense. La collezione fotografica, esposta all’Arts...
La Storia è sempre la storia del presente. Una finzione o un racconto, che si appoggia con rigore ai metodi delle scienze sperimentali per lavorare, che appartiene però di diritto al campo di battaglia della storia delle idee e che si trova, come si sapeva nel Medioevo, in una regione letteraria che va oltre tutti i generi. La Storia si produce tramite un trasporto di valori del nostro tempo in periodi passati che hanno come proposito principale il legittimargli e fargli passare per necessari. In quest’esercizio di giustificazione del presente, tutto quello che non incassa è male interpretato, omesso o taciuto, mentre quello che lo fa è rimarcato, trasformandolo nella stessa essenza di artefatti ed invenzioni tali come le epoche, i paesi o le razze. Impressionato per il suo carattere eterogeneo, quando Flaubert visitò Istanbul nel 1850 scrisse una celebre lettera nella quale pronosticava che l’antica Costantinopoli sarebbe la capitale del mondo un secolo dopo. Secondo Orhan Pamuk, quello che successe nel periodo menzionato, dopo la caduta dell’Impero ottomano, Istanbul si trasformò in una città posseduta dall’amarezza, la povertà e la rovina. Tra queste rovine di un passato splendente si trovava un magnifico e conturbante atlante mondiale del 1513 che, nonostante lo stesso giorno del suo ritrovamento, durante il governo di Atatürk, uno dei grandi tesori nazionali della Turchia moderna e laica, la cui rappresentazione è presente ancora oggi sulle banconote turche ed è da allora scrupolosamente mantenuto dall’esibizione pubblica. Anche gli studiosi che vogliono esaminarlo si ritrovano davanti a enormi difficoltà burocratiche, nonostante il suo ottimo stato di conservazione. In un certo senso è strano che sia così,...
Riportiamo le ultime parole di alcuni personaggi importanti per il loro apporto all’umanità, come, per esempio, Beethoven, il quale, sul letto di morte, prima di passare a miglior vita, disse: “Applaudite amici, la commedia è finita”. Parole simili furono quelle pronunciate dallo scrittore francese Francois Rabelais, fautore della stessa visione teatrale della vita: “Giù il telone, la farsa è terminata”. Lo scozzese Alexander Graham Bell, inventore del telefono (motivato dalla sordità della madre e della moglie), compie le sue scoperte durante esperimenti relativi all’apparato uditivo. Nel momento della morte fu molto breve e al “non lasciarmi” della moglie egli rispose, usando il linguaggio dei segni, un semplice “no”. Anche il poeta inglese Lord Byron fu di poche parole e decise di andarsene per sempre come se stesse andando a dormire, dicendo semplicemente “buona notte”. Theodore Roosevelt, presidente degli Stati Uniti, si espresse allo stesso modo: “Spegnete la luce”, disse. Al contrario Johann Wolfgang von Goethe, il celebre scrittore tedesco, ebbe l’impressione di un’eccessiva oscurità: “Luce, più luce”. Lo scrittore russo Lev Tolstói, sopraffatto, lasciò le sue ultime parole in forma di indovinello: “Anche nella ombrosa valle della morte, due più due non fa sei”. Chi invece se ne andò, diciamo, più animato e senza incognite fu lo scrittore russo Antón Chéjov, il quale, molto malato, appena vide arrivare il suo medico gli disse “Ich sterbe (muoio)”. Il dottore quindi ordinò al suo assistente di portare un tubo per l’ossigeno. Quando sentì l’ordine del dottore Chéjov disse: “È inutile, quando l’avranno portato sarò già morto”. A quel punto il dottore cambiò l’ordine e domandò al suo assistente che uscisse immediatamente...